Trekking a Pezzolo del 15 dicembre 2024
Appuntamento alle 8,00 all’Immacolata.
Presenti: Marcello Aricò, Filippo Cavallaro, Carmelo Geraci,Rosalba Fera, Antonello Gemelli, Francesco Pagano, Antonella Rotondo, Ciccio Briguglio, Lucia Annunziata, Maria Cadili, Manuela Scarcella, Eros Giardina, Maurizio Inglese, Antonio Micali, Rosario Sardella, Sebastiano Occhino, Patrizia Olivieri, Alberto Borgia e due ospiti: Lucia Guarino e Nicola Guarino. Formazione degli equipaggi e partenza alle 8,10.
Marcello e Carmelo sono andati a Giampilieri dove hanno lasciato le macchine e, insieme a Rosalba Fera sono tornati a Pezzolo dove li aspettavano tutti gli altri.
Alle 9,15, sotto una leggera pioggia , ci siamo incamminati verso la ” prima calata” del secolare sentiero detto“a calata di Bettaci” tornato percorribile da alcuni mesi grazie all’impegno di una decina di giovani del paese che lo hanno ripulito dalla vegetazione che lo aveva invaso negli ultimi decenni e messo in sicurezza alcuni tratti con la realizzazione di gradini, passerelle, ringhiere in canne di bambù etc., rendendolo fruibile a tutti.
All’ inizio del percorso , indicato dall’indice di una mano scolpita in un blocco di legno, c’è una antica carta geografica della Sicilia in cui è indicato anche il piccolo paesino di Pezzolo, a testimonianza dell’importanza del borgo nei secoli passati.
Il sentiero, che attraversa il paesaggio collinare fino alla contrada Bettaci, era in passato una delle principali vie di collegamento per gli abitanti del villaggio per raggiungere gli agrumeti e le terre coltivate.
Arrivati, dopo una mezz’ora di strada , all’inizio della “seconda calata” , abbiamo incontrato Gaetano Girasella, nativo di Pezzolo, professore di matematica e fisica in pensione, persona dalla vasta e poliedrica cultura e soprattutto appassionato ed esperto cultore di storia patria , che ci ha fatto da guida per il resto dell’ escursione, dandoci una gran quantità di informazioni, inframezzate da simpatici aneddoti riferiti a personaggi del paese, molti dei quali da lui conosciuti quando era bambino.
Alle 10,10 siamo arrivati al torrente, pieno d’acqua, proveniente dalla sorgente di San Calogero, dove i nostri giovani accompagnatori, coordinati da Giuseppe Spuria, avevano sistemato pedane in legno per rendere agevoli i numerosi attraversamenti.
Il professore Girasella ci ha spiegato in che modo, partendo dai materiali esistenti sul posto , con un pesantissimo e rischioso lavoro manuale, veniva prodotta la calce che serviva , mischiata alla sabbia e all’acqua, a preparare la malta.
Si partiva dalle grandi rocce di carbonato di calcio, frantumate con l’impiego di cariche di dinamite o polvere da sparo, inserite in fori, lunghi un metro, praticati a colpi di mazza battuti su lunghi scalpelli.
Le pietre ottenute a seguito dell’esplosione venivano disposte in ” caccare”, costruite sul posto, in modo da realizzare delle strutture semisferiche successivamente ricoperte da pietre di piccola pezzatura, mattoni e tegole. Su questa base si disponevano 120 fascine di legno povero, per un peso complessivo di quasi dieci tonnellate, a cui veniva dato fuoco.
La combustione durava 24 ore e alla fine si otteneva ossido di calcio puro ( calce viva) che, mescolata alla sabbia che si trovava in quantità nel greto del torrente e all’acqua formava la malta usata per cementare i mattoni, portati dalle fornaci della zona, e le pietre di costruzione.
L’ imponente ponte , che si presenta quasi all’improvviso,è costruito in pietra e mattoni e risale alla fine dell’Ottocento.
È perfettamente conservato e faceva parte di un complesso sistema di irrigazione che alimentava gli agrumeti della zona.
Non è stato trovato il progetto, ma il ponte è un vero capolavoro, e colpisce anche per il luogo in cui è stato realizzato.
Ha due contrafforti in mattoni, ancorati sui due pendii, larghi due metri e alti cinque metri su cui grava un primo arco del diametro di dieci metri. Sopra a questo ci sono altri tre archi, di diametro inferiore e in alto il camminamento dove c’era il sifone che portava acqua da una sponda all’altra tramite una condotta realizzata con i ” caduzzi” (tronchi di tubi in coccio lunghi circa 80 centimetri, con estremità a maschio e femmina innestati in modo da ottenere una tubazione).
L’altezza complessiva raggiunge i ventuno metri e il visitatore è colpito dalle dimensioni e dall’eleganza del manufatto.
Il Professore ci ha raccontato vividi episodi relativi al duro lavoro dei contadini e al loro rapporto con i proprietari ( spesso una danarosa famiglia cittadina , Bettaci, Sollima, Crisafi, Langher , che aveva acquistato i terreni espropriati con le leggi eversive al monastero benedettino di San Placido Calonerò) a cui li legava un contratto detto ” a un terzo” che garantiva al proprietario due terzi del ricavato e un terzo al colono che però aveva l’obbligo di ” scugnari ‘u terrenu” , fare i muretti a secco, realizzare le rasole e portare la terra ” a nocciolo” cioè alle dimensioni non superiori di quelle di un nocciolo.
In questo stato di pesante sfruttamento, quando la paga giornaliera di un bracciante consisteva in un secchio di limoni, c’era anche chi, con la complicità del sacrestano allungava la giornata lavorativa scandita dal suono delle campane.
Il sacrestano , dietro compenso, suonava il Padrenostro a notte fonda , un quarto d’ora prima del dovuto, e quando il bracciante si accorgeva dell’inganno osservando la posizione della stella Venere , doveva sorbirsi questa imprecazione :
” CHI MMI HAVI MALANOVA ‘U SACRISTANU, C’HAVI QUAGGHIARI ‘U SANGU A IDDU, A SO MUGGHIERI E I SO FIGGHI.
I SO QUATTRU FIGGHI FIMMINI C’HANNU ARRISTARI INTRA E HANNU ADDIVINTARI CHIU’ ACIDI DU ZZUCU DU LIMIUNI”.
Alle 10,45,discendendo il torrente per un breve tratto siamo tornati alla confluenza con il torrente proveniente da Iaddizzi e risalendolo abbiamo raggiunto, intorno alle 11,10, i ruderi di un mulino ad acqua cinquecentesco.
Questo mulino veniva utilizzato per la macinazione dei cereali raccolti in zona, ed era un punto di riferimento per l’intera comunità contadina della valle. È rimasto in funzione per quasi quattrocento anni, dal 1568, come testimonia la data scolpita su una pietra , fino al 1955 e il Professore ricorda l’ impressione che faceva , a lui ragazzino, l’ enorme ruota che girava a folle.
La ruota in legno, con quindici raggi, aveva un diametro di sei metri e sessanta centimetri, era mossa dall’acqua che cadeva a velocità da un canale in forte pendenza e, tramite un asse in legno di castagno di 45 centimetri di diametro,( ancora in parte visibile) trasmetteva il moto di rotazione orizzontale , con ingranaggi realizzati in legno di sorbo alla macina in pietra di un metro e mezzo di diametro.
L’acqua , dopo avere spinto la ruota, scorreva nella ” fliscia” e fluiva nel torrente.
Sempre sotto la pioggia abbiamo ripreso la via del ritorno risalendo la scalinata e arrivando alle 12,00 al cimitero (in prossimità del quale inizia la strada che conduce a Giampilieri) e alle 12,30 in paese.
Prima di visitare la chiesa Madre, il Professore ci ha parlato della ex chiesa di San Giovanni Battista, poi chiesa di Loreto, che si trova fuori dal paese e di cui rimangono gli interessanti resti, incluso un affresco con l’immagine della pietra angolare e di un sole che illumina dall’alto un uomo, come descritto nel “Benedictus”.
L’ edificio è stato presumibilmente realizzato da monaci basiliani dopo il 726 d.c. e prima dell’arrivo degli arabi a Messina nell’843.
Tra le numerose informazioni che ci ha dato, abbiamo saputo che a Pezzolo esisteva una consistente comunità di ebrei, alcuni dei quali, dopo l’ editto di Granada del 1492, divennero ” marrani” essendosi convertiti i per necessità alla fede cattolica ma continuavano a pregare in maniera particolare.
La chiesa madre, dedicata a San Nicola di Bari, protettore del villaggio, risale alla seconda metà del secolo XVII. Fu danneggiata gravemente dal terremoto del 1908 e venne ristrutturata negli anni successivi. Ha un artistico bellissimo Portale realizzato dagli allievi di Antonello Gagini. Costruita in pietra di Siracusa, la chiesa ha la facciata con raffigurati i simboli dei Quattro Evangelisti in bassorilievo, le teste alate dei Cherubini, una Madonna con bambino e Santi. Nelle due grosse basi di sostegno, sono invece visibili le figure delle Chimere alate, realizzate in altorilievo. Accanto alla chiesa sorge un alto campanile dove c’è murata una targa che riporta la data del 1598.
All’interno c’è una statua della Madonna di Loreto che pesa 250 chili , proveniente dalla chiesa di Loreto portata qui da un solo uomo, chiamato “Santu bistiazza” per via dell’esclamazione che fece riferendosi al peso della statua ( “minchia quantu pisa sta bistiazza”).
In fondo alla chiesa, dietro una bella acquasantiera, c’era una apertura chiamata “u purtusu du catalettu” nel quale venivano inseriti i cadaveri che finivano in un grosso ambiente sotterraneo prima della costruzione del cimitero, avvenuta nel 1892. A Pezzolo c’erano cinque chiese ed alcune di esse erano usate per seppellire i defunti.
Il Professore ricorda che quando aveva sedici anni crollò un muro di contenimento e lui, insieme ad un gruppo di amici, muniti di torce elettriche, entrarono nella cavità e videro mucchi di femori, teschi ed altre ossa umane.
Entrando in chiesa, a destra, c’è una originale acquasantiera di forma ottagonale, probabilmente proveniente da qualche proprietà dei cavalieri dell’ordine di Malta, che hanno tra le caratteristiche, la croce a otto punte. Sul bordo è incisa una scritta in latino che significa ” non intinga la mano il ladro” dove il ladro era il povero disgraziato che, per sfamare i propri figli , era costretto a rubare qualche frutto o erba commestibile di proprietà dell’importante monastero benedettino di San Placido Calonerò.
Il monastero infatti, per privilegio reale risalente al 1400 aveva il privilegio del pascolo su tutto il territorio di Altolia, Molino, Giampilieri, Pezzolo, Briga, Santo Stefano Briga e Santo Stefano medio.
Era possibile avere in affitto un terreno, ma l’affittuario doveva consegnare la metà del raccolto, a questa tassa si aggiungeva il 10% del raccolto( la cosiddetta decima per il sostentamento della chiesa) la tassa per il regio demanio e quindi il ” furto” di qualunque prodotto commestibile era quasi la prassi.
A Pezzolo c’era in passato un embrione di attività industriale, si allevava il baco da seta, c’erano cinque telai funzionanti e dalla produzione di essenza di limone si otteneva un discreto reddito.
Dopo la visita, quasi sempre sotto una leggera pioggia, ci siamo mossi verso il lavatoio passando dalla “rua ‘u palazzu” , adesso via Palazzo, così chiamato perchè c’era il palazzo dove nel 1500-1600 vivevano i benestanti del paese.
Della costruzione rimane un arco in pietra, di fattura simile a quello del monastero di San Placido, e due profonde stanze, dette dello scirocco, dove gli abitanti avevano refrigerio nelle giornate estive particolarmente afose. Alle spalle del Palazzo c’era la chiesa frequentata esclusivamente dai nobili.
Alle 12,55 siamo arrivati al lavatoio, recentemente restaurato.
La parte più interessante è costituita dal blocco monolitico in pietra, suddiviso in due vasche, decorato con croci greche e un simbolo di incerta identificazione che rimanda al rito bizantino. Si suppone che il manufatto fosse un fonte battesimale , forse trecentesco, proveniente, dalla chiesa di Santa Maria dell’Idria.
La data del 1869 si riferisce all’ anno di realizzazione della struttura a parete con l’arco in pietra. In questo luogo fino agli anni ’60 le donne del villaggio si ritrovavano per lavare i panni ed era un punto di incontro tra le ragazze ed i loro spasimanti.
Nel 1957 il comune di Messina fece dei lavori alle tubazioni, ma non rispettò le norme di legge e , poiché da qui si attingeva l’ acqua potabile, ci fu una epidemia di tifo con 260 abitanti contagiati.
Anche il Professore, che all’ epoca aveva sette anni, si ammalò e il medico che lo visitava, dopo avergli auscultato le spalle gli disse ” coricati” , un termine per lui sconosciuto , e nonostante i ripetuti inviti, solo quando sua Madre gli disse ” cucchiti” si sdraiò sul letto come richiesto.
Alle 13,05 ci siamo spostati al monumento ai caduti e anche qui il Professore ha raccontato che un reduce della prima guerra mondiale, Cicciu Baioccu, gli diceva come i soldati, prima dell’assalto venissero incoraggiati con una abbondante dose di cognac ed esaltati dall’ incitamento del loro capitano ” omini eramu e liuni addivintavimu ” si scagliavano contro le postazioni nemiche, incuranti del fuoco delle mitragliatrici.
Dopo la foto di gruppo, considerato che eravamo tutti abbastanza inumiditi da tre ore di cammino sotto la pioggia, viste anche le previsioni meteo che davano pioggia, abbiamo deciso di non fare il percorso da Pezzolo a Giampilieri lasciando la scelta ad ognuno di tornare a casa.
Il trekking, anche se parziale, è stato ugualmente molto interessante e ci ha permesso di iniziare una collaborazione che già a marzo si concretizzerà in una mezza giornata alla scoperta e conoscenza delle piante alimurgiche del luogo, di cui il professore Girasella è esperto.
Appuntamento alle 8,00 all’Immacolata.
Presenti: Marcello Aricò, Filippo Cavallaro, Carmelo Geraci,Rosalba Fera, Antonello Gemelli, Francesco Pagano, Antonella Rotondo, Ciccio Briguglio, Lucia Annunziata, Maria Cadili, Manuela Scarcella, Eros Giardina, Maurizio Inglese, Antonio Micali, Rosario Sardella, Sebastiano Occhino, Patrizia Olivieri, Alberto Borgia e due ospiti: Lucia Guarino e Nicola Guarino. Formazione degli equipaggi e partenza alle 8,10.
Marcello e Carmelo sono andati a Giampilieri dove hanno lasciato le macchine e, insieme a Rosalba Fera sono tornati a Pezzolo dove li aspettavano tutti gli altri.
Alle 9,15, sotto una leggera pioggia , ci siamo incamminati verso la ” prima calata” del secolare sentiero detto“a calata di Bettaci” tornato percorribile da alcuni mesi grazie all’impegno di una decina di giovani del paese che lo hanno ripulito dalla vegetazione che lo aveva invaso negli ultimi decenni e messo in sicurezza alcuni tratti con la realizzazione di gradini, passerelle, ringhiere in canne di bambù etc., rendendolo fruibile a tutti.
All’ inizio del percorso , indicato dall’indice di una mano scolpita in un blocco di legno, c’è una antica carta geografica della Sicilia in cui è indicato anche il piccolo paesino di Pezzolo, a testimonianza dell’importanza del borgo nei secoli passati.
Il sentiero, che attraversa il paesaggio collinare fino alla contrada Bettaci, era in passato una delle principali vie di collegamento per gli abitanti del villaggio per raggiungere gli agrumeti e le terre coltivate.
Arrivati, dopo una mezz’ora di strada , all’inizio della “seconda calata” , abbiamo incontrato Gaetano Girasella, nativo di Pezzolo, professore di matematica e fisica in pensione, persona dalla vasta e poliedrica cultura e soprattutto appassionato ed esperto cultore di storia patria , che ci ha fatto da guida per il resto dell’ escursione, dandoci una gran quantità di informazioni, inframezzate da simpatici aneddoti riferiti a personaggi del paese, molti dei quali da lui conosciuti quando era bambino.
Alle 10,10 siamo arrivati al torrente, pieno d’acqua, proveniente dalla sorgente di San Calogero, dove i nostri giovani accompagnatori, coordinati da Giuseppe Spuria, avevano sistemato pedane in legno per rendere agevoli i numerosi attraversamenti.
Il professore Girasella ci ha spiegato in che modo, partendo dai materiali esistenti sul posto , con un pesantissimo e rischioso lavoro manuale, veniva prodotta la calce che serviva , mischiata alla sabbia e all’acqua, a preparare la malta.
Si partiva dalle grandi rocce di carbonato di calcio, frantumate con l’impiego di cariche di dinamite o polvere da sparo, inserite in fori, lunghi un metro, praticati a colpi di mazza battuti su lunghi scalpelli.
Le pietre ottenute a seguito dell’esplosione venivano disposte in ” caccare”, costruite sul posto, in modo da realizzare delle strutture semisferiche successivamente ricoperte da pietre di piccola pezzatura, mattoni e tegole. Su questa base si disponevano 120 fascine di legno povero, per un peso complessivo di quasi dieci tonnellate, a cui veniva dato fuoco.
La combustione durava 24 ore e alla fine si otteneva ossido di calcio puro ( calce viva) che, mescolata alla sabbia che si trovava in quantità nel greto del torrente e all’acqua formava la malta usata per cementare i mattoni, portati dalle fornaci della zona, e le pietre di costruzione.
L’ imponente ponte , che si presenta quasi all’improvviso,è costruito in pietra e mattoni e risale alla fine dell’Ottocento.
È perfettamente conservato e faceva parte di un complesso sistema di irrigazione che alimentava gli agrumeti della zona.
Non è stato trovato il progetto, ma il ponte è un vero capolavoro, e colpisce anche per il luogo in cui è stato realizzato.
Ha due contrafforti in mattoni, ancorati sui due pendii, larghi due metri e alti cinque metri su cui grava un primo arco del diametro di dieci metri. Sopra a questo ci sono altri tre archi, di diametro inferiore e in alto il camminamento dove c’era il sifone che portava acqua da una sponda all’altra tramite una condotta realizzata con i ” caduzzi” (tronchi di tubi in coccio lunghi circa 80 centimetri, con estremità a maschio e femmina innestati in modo da ottenere una tubazione).
L’altezza complessiva raggiunge i ventuno metri e il visitatore è colpito dalle dimensioni e dall’eleganza del manufatto.
Il Professore ci ha raccontato vividi episodi relativi al duro lavoro dei contadini e al loro rapporto con i proprietari ( spesso una danarosa famiglia cittadina , Bettaci, Sollima, Crisafi, Langher , che aveva acquistato i terreni espropriati con le leggi eversive al monastero benedettino di San Placido Calonerò) a cui li legava un contratto detto ” a un terzo” che garantiva al proprietario due terzi del ricavato e un terzo al colono che però aveva l’obbligo di ” scugnari ‘u terrenu” , fare i muretti a secco, realizzare le rasole e portare la terra ” a nocciolo” cioè alle dimensioni non superiori di quelle di un nocciolo.
In questo stato di pesante sfruttamento, quando la paga giornaliera di un bracciante consisteva in un secchio di limoni, c’era anche chi, con la complicità del sacrestano allungava la giornata lavorativa scandita dal suono delle campane.
Il sacrestano , dietro compenso, suonava il Padrenostro a notte fonda , un quarto d’ora prima del dovuto, e quando il bracciante si accorgeva dell’inganno osservando la posizione della stella Venere , doveva sorbirsi questa imprecazione :
” CHI MMI HAVI MALANOVA ‘U SACRISTANU, C’HAVI QUAGGHIARI ‘U SANGU A IDDU, A SO MUGGHIERI E I SO FIGGHI.
I SO QUATTRU FIGGHI FIMMINI C’HANNU ARRISTARI INTRA E HANNU ADDIVINTARI CHIU’ ACIDI DU ZZUCU DU LIMIUNI”.
Alle 10,45,discendendo il torrente per un breve tratto siamo tornati alla confluenza con il torrente proveniente da Iaddizzi e risalendolo abbiamo raggiunto, intorno alle 11,10, i ruderi di un mulino ad acqua cinquecentesco.
Questo mulino veniva utilizzato per la macinazione dei cereali raccolti in zona, ed era un punto di riferimento per l’intera comunità contadina della valle. È rimasto in funzione per quasi quattrocento anni, dal 1568, come testimonia la data scolpita su una pietra , fino al 1955 e il Professore ricorda l’ impressione che faceva , a lui ragazzino, l’ enorme ruota che girava a folle.
La ruota in legno, con quindici raggi, aveva un diametro di sei metri e sessanta centimetri, era mossa dall’acqua che cadeva a velocità da un canale in forte pendenza e, tramite un asse in legno di castagno di 45 centimetri di diametro,( ancora in parte visibile) trasmetteva il moto di rotazione orizzontale , con ingranaggi realizzati in legno di sorbo alla macina in pietra di un metro e mezzo di diametro.
L’acqua , dopo avere spinto la ruota, scorreva nella ” fliscia” e fluiva nel torrente.
Sempre sotto la pioggia abbiamo ripreso la via del ritorno risalendo la scalinata e arrivando alle 12,00 al cimitero (in prossimità del quale inizia la strada che conduce a Giampilieri) e alle 12,30 in paese.
Prima di visitare la chiesa Madre, il Professore ci ha parlato della ex chiesa di San Giovanni Battista, poi chiesa di Loreto, che si trova fuori dal paese e di cui rimangono gli interessanti resti, incluso un affresco con l’immagine della pietra angolare e di un sole che illumina dall’alto un uomo, come descritto nel “Benedictus”.
L’ edificio è stato presumibilmente realizzato da monaci basiliani dopo il 726 d.c. e prima dell’arrivo degli arabi a Messina nell’843.
Tra le numerose informazioni che ci ha dato, abbiamo saputo che a Pezzolo esisteva una consistente comunità di ebrei, alcuni dei quali, dopo l’ editto di Granada del 1492, divennero ” marrani” essendosi convertiti i per necessità alla fede cattolica ma continuavano a pregare in maniera particolare.
La chiesa madre, dedicata a San Nicola di Bari, protettore del villaggio, risale alla seconda metà del secolo XVII. Fu danneggiata gravemente dal terremoto del 1908 e venne ristrutturata negli anni successivi. Ha un artistico bellissimo Portale realizzato dagli allievi di Antonello Gagini. Costruita in pietra di Siracusa, la chiesa ha la facciata con raffigurati i simboli dei Quattro Evangelisti in bassorilievo, le teste alate dei Cherubini, una Madonna con bambino e Santi. Nelle due grosse basi di sostegno, sono invece visibili le figure delle Chimere alate, realizzate in altorilievo. Accanto alla chiesa sorge un alto campanile dove c’è murata una targa che riporta la data del 1598.
All’interno c’è una statua della Madonna di Loreto che pesa 250 chili , proveniente dalla chiesa di Loreto portata qui da un solo uomo, chiamato “Santu bistiazza” per via dell’esclamazione che fece riferendosi al peso della statua ( “minchia quantu pisa sta bistiazza”).
In fondo alla chiesa, dietro una bella acquasantiera, c’era una apertura chiamata “u purtusu du catalettu” nel quale venivano inseriti i cadaveri che finivano in un grosso ambiente sotterraneo prima della costruzione del cimitero, avvenuta nel 1892. A Pezzolo c’erano cinque chiese ed alcune di esse erano usate per seppellire i defunti.
Il Professore ricorda che quando aveva sedici anni crollò un muro di contenimento e lui, insieme ad un gruppo di amici, muniti di torce elettriche, entrarono nella cavità e videro mucchi di femori, teschi ed altre ossa umane.
Entrando in chiesa, a destra, c’è una originale acquasantiera di forma ottagonale, probabilmente proveniente da qualche proprietà dei cavalieri dell’ordine di Malta, che hanno tra le caratteristiche, la croce a otto punte. Sul bordo è incisa una scritta in latino che significa ” non intinga la mano il ladro” dove il ladro era il povero disgraziato che, per sfamare i propri figli , era costretto a rubare qualche frutto o erba commestibile di proprietà dell’importante monastero benedettino di San Placido Calonerò.
Il monastero infatti, per privilegio reale risalente al 1400 aveva il privilegio del pascolo su tutto il territorio di Altolia, Molino, Giampilieri, Pezzolo, Briga, Santo Stefano Briga e Santo Stefano medio.
Era possibile avere in affitto un terreno, ma l’affittuario doveva consegnare la metà del raccolto, a questa tassa si aggiungeva il 10% del raccolto( la cosiddetta decima per il sostentamento della chiesa) la tassa per il regio demanio e quindi il ” furto” di qualunque prodotto commestibile era quasi la prassi.
A Pezzolo c’era in passato un embrione di attività industriale, si allevava il baco da seta, c’erano cinque telai funzionanti e dalla produzione di essenza di limone si otteneva un discreto reddito.
Dopo la visita, quasi sempre sotto una leggera pioggia, ci siamo mossi verso il lavatoio passando dalla “rua ‘u palazzu” , adesso via Palazzo, così chiamato perchè c’era il palazzo dove nel 1500-1600 vivevano i benestanti del paese.
Della costruzione rimane un arco in pietra, di fattura simile a quello del monastero di San Placido, e due profonde stanze, dette dello scirocco, dove gli abitanti avevano refrigerio nelle giornate estive particolarmente afose. Alle spalle del Palazzo c’era la chiesa frequentata esclusivamente dai nobili.
Alle 12,55 siamo arrivati al lavatoio, recentemente restaurato.
La parte più interessante è costituita dal blocco monolitico in pietra, suddiviso in due vasche, decorato con croci greche e un simbolo di incerta identificazione che rimanda al rito bizantino. Si suppone che il manufatto fosse un fonte battesimale , forse trecentesco, proveniente, dalla chiesa di Santa Maria dell’Idria.
La data del 1869 si riferisce all’ anno di realizzazione della struttura a parete con l’arco in pietra. In questo luogo fino agli anni ’60 le donne del villaggio si ritrovavano per lavare i panni ed era un punto di incontro tra le ragazze ed i loro spasimanti.
Nel 1957 il comune di Messina fece dei lavori alle tubazioni, ma non rispettò le norme di legge e , poiché da qui si attingeva l’ acqua potabile, ci fu una epidemia di tifo con 260 abitanti contagiati.
Anche il Professore, che all’ epoca aveva sette anni, si ammalò e il medico che lo visitava, dopo avergli auscultato le spalle gli disse ” coricati” , un termine per lui sconosciuto , e nonostante i ripetuti inviti, solo quando sua Madre gli disse ” cucchiti” si sdraiò sul letto come richiesto.
Alle 13,05 ci siamo spostati al monumento ai caduti e anche qui il Professore ha raccontato che un reduce della prima guerra mondiale, Cicciu Baioccu, gli diceva come i soldati, prima dell’assalto venissero incoraggiati con una abbondante dose di cognac ed esaltati dall’ incitamento del loro capitano ” omini eramu e liuni addivintavimu ” si scagliavano contro le postazioni nemiche, incuranti del fuoco delle mitragliatrici.
Dopo la foto di gruppo, considerato che eravamo tutti abbastanza inumiditi da tre ore di cammino sotto la pioggia, viste anche le previsioni meteo che davano pioggia, abbiamo deciso di non fare il percorso da Pezzolo a Giampilieri lasciando la scelta ad ognuno di tornare a casa.
Il trekking, anche se parziale, è stato ugualmente molto interessante e ci ha permesso di iniziare una collaborazione che già a marzo si concretizzerà in una mezza giornata alla scoperta e conoscenza delle piante alimurgiche del luogo, di cui il professore Girasella è esperto.